Viet Thanh Nguyen – Saigon Goodbye

    In cupi tempi di trumputinismo dilagante come gli attuali, costellati da idioti di varia etnia alla disperata ricerca di improbabili perdute sovranità, nemici dichiarati di ogni alterità alla loro povertà identitaria, un libro come questo può davvero diventare un’ossigenante boccata d’aria fresca. [Read more…]

Gli anni del ’68: I Comontisti

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    “Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te”. Lo slogan, scaturito insieme a decine d’altri dal geyser eruttato nel pieno del “joli mois de mai” parigino, era piovuto anche sulla Genova sonnacchiosa e grigia di fine anni ’60. E vecchia appariva davvero la città, dominata in allora da una borghesia persa nel circolo vizioso delle sue ritualità famigliari, nel grigiore della sua omogeneità culturale, catturata dalla logica sempiterna dello “scagno”. [Read more…]

Emmanuel Carrère – Il Regno, un esordio folgorante

carrere-570x300Dopo il poeta teppista Limonov e il pluriassassino Jean-Claude Romand de “L’Avversario”, Emmanuel Carrère sceglie, per la sua ultima fatica letteraria, “Il Regno” (Adelphi, 428 pp. 22 euro), due protagonisti schierati decisamente sulla barricata opposta, addirittura due santi veri e propri.  Il libro, infatti, tratta soprattutto di Luca e Paolo, cofondatori del cristianesimo e protagonisti in prima persona di quella che risulta una vera e propria cronistoria degli anni ruggenti della nuova fede. [Read more…]

Willy Vlautin – La ballata di Charlie Thompson : un cavallo per amico

music1-570Willy Vlautin, ottimo musicista, da oltre una decade leader della cult band di Portland “Richmond Fontaine”, è uno dei rari casi di artista capace di intraprendere contemporaneamente due percorsi creativi distinti e, in ambo i casi, con risultati notevoli di pubblico e critica. Dal 2006 infatti Vlautin è anche un acclamato scrittore di narrativa, osannato nell’anno del suo esordio come uno  tra i migliori autori americani contemporanei dalla New York Times Book Review.  “La ballata di Charles Thompson” pubblicato ora in Italia da Mondadori (Strade Blu, 261 pp. 17 euro) è il suo terzo romanzo e, sicuramente, uno dei più toccanti. [Read more…]

Götz Aly – Perché i tedeschi e perché gli ebrei?

goetz-haydar-aly-100~_v-image512_-6a0b0d9618fb94fd9ee05a84a1099a13ec9d3321Perché i tedeschi e perché gli ebrei? La domanda, scontata se vogliamo, non è poi così banale come potrebbe sembrare. Perché un’intero popolo si sia trasformato in implacabile aguzzino, o almeno in complice silente e distratto, quasi senza battere ciglio? E perché una minoranza, in fondo numericamente marginale e in buona parte  emarginata,  sia stata eletta a predestinata vittima sacrificale del suddetto intero popolo? Götz Aly, giornalista tedesco e docente all’istituto Fritz Bauer di Francoforte, si pone l’interrogativo come titolo del suo ultimo saggio, pubblicato in Italia da Einaudi, giungendo a risposte per molti aspetti inaspettate, profondamente critiche nei confronti dell’atteggiamento con cui molti suoi connazionali sembrano aver affrontato il problema e l’imbarazzo che inevitabilmente ne consegue. [Read more…]

Mo Yan – Le Rane, canto triste dei bimbi mai nati

2012-Nobel-Prize-For-Literature-Mo-Yan-485x728Quando, l’anno scorso, gli venne assegnato il premio Nobel per la Letteratura, non furono pochi quelli che storsero apertamente la bocca : se non autore di regime, Mo Yan veniva ritenuto comunque scrittore troppo tenero nei confronti del potere cinese, sicuramente condiscendente verso l’attualità del suo paese, da cui preferiva spesso rifugiarsi in un passato abbastanza remoto da essere, comunque, glorioso. Con “Le Rane”, il suo ultimo romanzo pubblicato (Einaudi, pag. 382, € 20), Mo Yan sembra implicitamente rispondere a tutti i suoi potenziali detrattori: questa volta l’argomento è scottante e relativamente recente e l’ironia con cui affronta l’annosa questione del controllo delle nascite in Cina, seppur bonaria e mai troppo corrosiva, non fa comunque sconti a nessuno. [Read more…]

Don DeLillo – L’Angelo Esmeralda, miracolo a New York

Don-DeLillo-006Prolifico autore di romanzi spesso monumentali, Don DeLillo sembra invece aver dedicato assai minor attenzione, nello scorrere degli anni, alla difficile arte del racconto, il che, a giudicare dalla sua  prima raccolta oggi pubblicata, “L’Angelo Esmeralda” (Einaudi, pag. 208, € 19)  che racchiude nove testi brevi dal 1979 al 2011, è un vero peccato, data la maestria dimostrata nell’imbrigliare, in un  testo appena accennato, la magia imperdibile di un momento o l’ossessione di una vita. La sua narrativa, da questo punto di vista, racchiude qualcosa della filosofia Zen: ogni racconto rappresenta a suo modo un piccolo satori, l’epifania illuminante che irradia di significati reconditi le situazioni più improbabili, trasformandole in altrettante vivide visioni di una realtà aumentata, più vera del reale. [Read more…]

Kevin Powers – Yellow Birds, una cartolina dall’Iraq

Kevin Powers“Venire da un posto dove a definirti bastano pochi dettagli, dove poche abitudini possono riempire una vita, produce un senso di vergogna inconfondibile. Le nostre erano state piccole vite, popolate dal desiderio di qualcosa di più consistente di qualche strada sterrata e qualche piccolo sogno. E allora eravamo andati lì, dove la vita non aveva bisogno di spiegazioni e dove altri ci avrebbero detto chi dovevamo essere.” Lì è l’Iraq, l’anno è il 2004 e quello che decide chi bisogna essere è l’esercito degli Stati Uniti. Kevin Powers riassume così, in pochi tratti essenziali, le motivazioni di due ragazzi della Virginia che si ritrovano a vagare armati nelle strade di Al Tafar, governatorato di Ninawa, Iraq, i protagonsti di “Yellow Birds”  (Einaudi, pag. 192, Euro 17), la sua folgorante opera prima e uno dei migliori romanzi di guerra pubblicati in questi anni. [Read more…]

Murakami – A sud del confine, dove inizia l’impossibile

Haruki-Murakami-007Qual è il confine tra reale e irreale, esiste davvero una separazione, netta e invalicabile, tra queste due dimensioni? E poi, cos’ è reale e cosa no, c’è una sola, inequivocabile realtà, oppure infinite, quanti sono i soggetti che la abitano? Murakami Haruki è sicuramente lo scrittore contemporaneo che, più di ogni altro, ha scelto di danzare con le parole su questo confine immaginario, sia che le sue opere siano  etichettabili come “realiste”, sia, come accade assai più spesso,  risultino assolutamente irrealistiche. “A sud del confine, a ovest del sole”, un’opera del ’92 che torna oggi nelle librerie italiane in una traduzione completamente rinnovata (Einaudi, pag. 204, Euro 20), rappresenta forse una delle sintesi meglio riuscite tra i due  versanti di questo immaginifico autore. [Read more…]

Richard Ford – Canada, un grande romanzo americano

_63435673_richard_ford_bbc    Il Grande Romanzo Americano ha padri nobili, geniali e beffardi divulgatori e qualche discepolo contemporaneo che ne rinverdisce la tradizione, nonostante la precarietà dei tempi e l’inevitabile obsolescenza del modello. Tra i primi va annoverato sicuramente Ralph Waldo Emerson, primigenio cantore degli spazi immacolati e dei santuari naturali del nuovo continente. Tra i secondi sicuramente il beffardo Mark Twain, i cui adolescenziali eroi dilettanti ben illustravano lo spirito avventuroso di una giovane nazione. O, sul versante più cupo e oscuro, va sicuramente ricordata la crepuscolare grandezza degli antieroi melvilliani,  che trovano oggi  una continuità ideale nei tetri protagonisti di tante storie di Cormac McCarty. Richard Ford, pur essendo assai diverso da quest’ultimo, al cui magnetismo violento contrappone una sensibilità molto più sottile e intimista, è sicuramente l’altro grande protagonista dell’odierna stagione della caccia al grande e incontaminato romanzo americano. [Read more…]

Erik Larson – A spasso con le belve nei giardini di Satana


    Osservare una grande civiltà, carica di secoli di storia, ricca di cultura, arte e pensiero, affondare lentamente e inevitabilmente nel crepuscolo della follia, una grande città cosmopolita, vivace, pervasa da una brillante vita sociale, perdersi definitivamente nelle brume di un  terrore diffuso  e perverso. E farlo da un osservatorio privilegiato e sicuro: l’ambasciata americana a Berlino negli anni dell’ascesa al potere di Hitler, appena dopo che il capo dei nazionalsocialisti aveva ricevuto il cancellierato dalle mani del vecchio Maresciallo Hindenburg. [Read more…]

Ian McEwan – Miele, la spia che mi amava e…mi leggeva.

  Con il quindicesimo titolo di una bibliografia fattasi ormai corposa, Ian McEwan sembra voler fare un salto nel passato, ritornando a temi ed atmosfere tipiche del suo primo romanzo di grande successo, quel “The Innocent” del 1990 (da noi “Lettera a Berlino”) che gli diede visibilità internazionale e fama di giovane scrittore in irresistibile ascesa. Un successo sicuramente irrobustito dall’ottimo film di John Schlesinger con Isabella Rossellini e Anthony Hopkins che ne fu immediatamente ricavato, secondo una solida tradizione che ha visto per ben sette volte (otto con il film già in cantiere su questo ultimo titolo) altrettante opere di McEwan farsi titoli di successo sul grande schermo. [Read more…]

Salman Rushdie – Joseph Anton : lo scrittore e gli assassini devoti

L’inquadratura iniziale è una scena famosa: esterno della piccola scuola di Bodega Bay, si sentono in lontananza le voci dei bimbi che recitano una filastrocca, un corvo nero scende dal cielo e si posa sul castello di tubi al centro del cortile. Altri lo seguono e in un attimo la struttura è letteralmente nereggiante di ali e di becchi. Ma, questa volta, a guardarli con terrore non c’è l’elegante Tippi Hedren degli “Uccelli” , ma un annichilito Salman Rushdie che ascolta il primo corvaccio annunciarsi al telefono, una giornalista della BBC che gli rivolge la domanda tipica del cretinismo informativo: che effetto fa sapersi condannati a morte dall’ayatollah Khomeini? [Read more…]

Mario Vargas Llosa: L’incubo del celta, un viaggio nel cuore delle tenebre

Konrad Korzeniowski incontra per la prima volta il console inglese Roger Casement nel giugno del 1890 a Matadi, dove il trentenne di origine polacca fa tappa nel suo viaggio verso l’alto corso del fiume Congo, diretto ad assumere il comando del vapore “Le Roi des Belges”, piccolo cargo impiegato nel commercio tra Leopoldville e le lontane Stanley Falls. [Read more…]

Romain Gary – La notte sarà calma e l’alba è una promessa

“Il realismo per un romanziere, consiste nel non farsi beccare”. Nel senso di non farsi sorprendere con le mani nel sacco…. E a lui, Romain Gary, la cosa pare riuscire benissimo. Siamo nel 1974, un anno per molti versi cruciale delle sue molteplici esistenze, e Gary confida queste parole nel corso di una lunga intervista rilasciata all’amico François Bondy, destinata ad essere pubblicata col titolo “La notte sarà calma”, che esce ora anche in Italia grazie all’editore Neri Pozza, a cui si deve l’iniziativa meritoria di aver stampato e ristampato molte delle sue opere.

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Thomas Pynchon: Doc Sportello e la Zanna d’Oro una storia di sesso, droga e mistero a Los Angeles

In fondo, è un po’ come se Philip Marlowe, impegnato nel labirinto delle indagini descritte in “Addio mia amata”, si fosse fumato uno degli spinelli che Anne Riordan gli chiede di nascondere e, guidando nella nebbia lungo la freeway che, da Santa Monica, scende verso la Sud Bay, avesse inavvertitamente imboccato un tunnel spazio temporale, ritrovandosi all’uscita di Gordita Beach una trentina d’anni dopo, nei panni di uno strafatto detective, altrettanto marginale ma molto molto più sconclusionato e inconcludente. In effetti Larry “Doc” Sportello, protagonista dell’ultimo romanzo di Thomas Pynchon “Vizio di forma” , ha con il suo antenato chandleriano molti punti in comune: stessa idiosincrasia per le forze dell’ordine, incarnate da un Los Angeles Police Department intasato da poliziotti corrotti e malevoli, portati ad allacciare oscuri legami con le forze del male e ad ostacolare ogni onesta indagine investigativa, salvo arrivare sempre al momento opportuno distribuendo manette e annettendosi eventuali meriti. Stessa propensione ai casi difficili, intricati e mal pagati, stessa debolezza a cedere al sentimento e al fascino sinuoso di dark ladies tanto belle quanto eternamente sfuggenti. Ma esternamente ogni somiglianza viene subito meno: nessuna parentela con l’eleganza demodè di un Marlowe o di un Sam Spade, e nemmeno con quella più pacchiana del Gittes di Polanski; se mai, restando sul grande schermo, qualche parallelo potrebbe esserci con il Lebonski dei fratelli Cohen, di cui Doc condivide l’aria eternamente svagata e leggermente strafatta.
“Vizio di forma” in effetti è davvero una sorta di tardo hard boiled californano, una satira grottesca e psichedelica dei classici pulp della detective story made in LA, dotato di tutti i crismi del caso: una trama complessa e spesso incongruente, un folla dickensiana di personaggi emarginati e perdenti, avvolti in un’atmosfera crepuscolare e maledetta, sperduti in un eterno conflitto con diabolici complotti orchestrati da oscure potenze nascoste. Ma, in quache modo, è anche un libro autobiografico, in cui Pynchon celebra gli anni trascorsi a Manhattam Beach, sulla costa losangelina, a scrivere quello che tutti considerano il suo capolavoroi assoluto, “L’arcobaleno della gravità”.
Il periodo è lo stesso: “Vizio di forma” si svolge tra il marzo e il maggio del 1970, proprio quando Pynchon abitava a Manhattam Beach nella South Bay di Los Angeles, di cui Gordita Beach è una chiara trasposizione romanzesca. Poche come sempre le testimonianze di quel periodo: Pynchon viveva più o meno da recluso e al solito evitava ogni contatto con il mondo esterno, secondo il cliché che ha fatto di lui lo scrittore più elusivo dell’intera letteratura americana. Ma la Gordita del romanzo è una descrizione vivace e coerente del periodo. Siamo a un snodo cruciale della recente storia statunitense: Ronald Regan è governatore della California e si appresta alla scalata che lo porterà presto a Washingtong. Alla Casa Bianca nel frattempo abita Richard Nixon, quel Tricky Dick che si ripromette di allargare il conflitto vietnamita a Laos e Cambogia e non si perita di affermare che una certa dose di fascismo “può far bene alla libertà”. Un’atmosfera di plumbea paranoia avvolge gli ultimi tramonti su quell’isola felice che è ancora, ma per poco, Gordita, popolata di tardi freakketoni strafatti e di surfers temerari alla ricerca dell’onda perduta, un sottobosco alieno che si aggira lungo le strade in discesa che portano all’oceano, fatte di case fatiscenti e polverose, in cui ruggine e stucco cadente si mischiano ai vapori salini del mare e all’umidità della nebbia, ai miasmi dell’incessante traffico delle freeway e al rombo dei jet in partenza dal vicino aereoporto.
Sono le ultime vestigia di quell’estate dell’amore che aveva travolto la California dei tardi anni ’60, ormai inacidite dall’approssimarsi inarrestabile di un’apocalisse prossima ventura che sembra destinata a mangiarsi tutto. “Vizio di forma” condivide scenari e personaggi dell’altro romanzo dedicato da Pynchon al periodo, quel “Vineland” che descriveva la migrazione degli hippies al nord, verso la terra delle grandi sequoie, in fuga da una rivoluzione svanita a cui non credeva più nessuno, trasformatasi nello spazio di un mattino da anelito di libertà assoluta in oscuro complotto di provocatori e infiltrati. Chi allora ha preferito rimanere vive ora a Gordita e cerca di sfuggire alla realtà che romba minacciosa giusto oltre la spiaggia e le dune, facendo ricorso a un miscuglio eterogeneo e pittoresco di droghe o allontanandosi a bordo di esili tavole da surf su un mare eternamente ribollente e inquietante, su cui le esili sagome dei cavalieri dell’onda sembrano mohahi in sedicesimo di una Rapa Nui capovolta, intenti a scrutare perplessi la costa caliginosa del continente.
“Vizio di forma” rappresenta, nella bibliografia pynchionaniana, sicuramente un record di popolarità: è il primo romanzo dello scrittore a raggiungere le classifiche dei best sellers, il che per un autore molto più citato che letto, rappresenta sicuramente una sorprendente novità, ed è pure il primo di cui già si annuncia una versione cinematografica. E in effetti il romanzo si rivela un libro “divertente”, apparentemente di facile lettura, vuoi anche per una mole, poco più di quattrocento pagine, abbastanza inusuale per chi è abituato a scriverne spesso ben oltre le mille. Per di più la forma adottata, la detective story, aiuta a superare certi scogli tipici della letteratura postmodern, agganciando il lettore a una trama che, se pur intricata e spesso opaca, resta comunque sempre dotata di una certa dose di thriller.
In superficie in effetti seguiamo le avventure del detective Doc Sportello, incastrato dalla solita ex di turno, bella e seducente, in un caso di tradimento extraconiugale con un magnate dell’edilizia e della devastazione ambientale, complicato da un rapimento e dalle oscure manovre di una moglie fedifraga, evidentemente interessata più alle sostanze del consorte che al suo fascino appassito. Fin qui nulla di strano, tutto secondo i canoni del genere. Ma le cose, come nel più classico dei trip, assumono quasi da subito aspetti inusuali e prospettive inconsuete. Sportello, cui l’uso massiccio e continuo di quantità industriali di marijuana non garantisce certo una asettica lucidità, più che seguire un’indagine, sembra perdersi in un viaggio psichedelico del tutto personale, dove è difficile distinguere tra realtà e allucinazione. Come in ogni classico “viaggio”, la realtà comincia a debordare da ogni lato, compaiono ad ogni passo percorsi collaterali, si aprono prospettive incosuete, la pista, ammesso che ne esista una, sembra la tela di un ragno in preda all’LSD. Anche la cronologia gioca brutti scherzi, dopo una scrupolosa meticolosità iniziale, a metà del romanzo l’orologio si ferma e si apre un tunnel extratemporale in cui Sportello compie non a caso le scoperte più rivelatrici sul caso.
In un vero e proprio delirio psichedelico, “Vizio di forma” diventa ben presto una satira corrosiva non solo del romanzo di genere, un vero classico americano, ma a suo modo anche una critica davvero “acida” di un’intera società. Il romanzo si popola rapidamente di “mostri”: bande di motociclisti nazisti affiliati a Fratellanze Ariane, gang nere legate ai Fratelli di Soledad e alla rivolta di Watts, surfisti solitari alla ricerca di cavalloni impossibili in mare aperto, laddove sembrerebbe stia riemergendo un contiente scomparso, gruppi di surf rock alla Beach Boys, installati in sfarzose ville su canyon lussureggianti in cui si aggirano groupies depravate ed eroinomani zombies, centri di riabilitazione in cui si compiono perverse mutazioni e si manipolano cervelli, organizzazioni di Vigilantes che appoggiano manovre controrivoluzionarie, dedite al culto di Nixon e pronte al lavoro sporco che anche una polizia corrotta si rifiuta di fare. E a dominare su tutti l’ombra del nemico assoluto e sempre indefinibile, la Golden Fang, una sorta di P2 di cui è difficile anche distinguere i contorni, che può essere di volta in volta uno scooner su cui effettuare il contrabbando di eroina dal Triangolo d’oro, ma anche ripulire soldi sporchi scambiandoli con dollari con l’effige di Nixon al posto dei soliti Franklin e Lincoln, ma è pure un’organizzazione di dentisti sadici che ha come sede un grattacielo dorato a forma di zanna, o un gruppo di benpensanti che intesse rapporti indicibili con le lobbies più segrete del potere.
Sono gli anni in cui Charlie Satana Manson e la sua banda, appena catturati, infestano ancora i sonni dei buoni borghesi asserragliati nelle loro ville di Bel Air e Beverly Hills, in cui una paranoia densa e irrespirabile raggiunge anche gli avamposti più remoti dell’immensa metropoli, mostrando i segni inequivocabili di un incubo che va materializzandosi collettivamente, il peccato originale di un’intera società che è il “vizio di forma” che ne sancisce la condanna. Il romanzo diventa così il malinconico controcanto di addio di una generazione che, appollaiata sul bordo dell’oceano, assiste impotente al declino dei propri sogni e all’ di un giorno che si annuncia con toni apocalittici.
Ossessivo domina, lungo lo scorrere delle pagine, l’accompagnamento sonoro di centinaia di canzoni, ironica colonna sonora che Pynchon assembla, con la consueta maestria postmodern, in un testo che mischia al solito rock, cartoons, cinema e tv, in una scrittura magmatica che costruisce la propria diversità proprio a partire dai materiali più ordinari. Emblematica, nell’incupirsi dell’atmosfera del racconto, l’ossessione televisiva dei protagonisti per le serie tv, le cui trame si intersecano con della narrazione, fino a diventarne una sorta di specchio rovesciato. Nella società dello spettacolo che annuncia ormai il suo completo dominio, mentre l’attore Regan si appresta a cavalcare da sceriffo anche la scena politica, i serials tv incarnano l’invertisi della realtà in cui ciò che esiste realmente è ormai solo ciò che appare, sullo schermo appunto. C’è una scena molto significativa del racconto, emblematica a questo proposito. Doc nasconde un pacco di venti chili di eroina nella scatola vuota di un televisore. Denis, suo vicino e compagno di sballi, lo trova e si mette a guardarlo, come fosse davvero una tv. Perché la neve non è solo la “roba”, ma anche l’effetto pixelato di un schermo acceso ma privo di segnale. La droga, insomma, a cui milioni di americani, ma non solo, si apprestano a delegare il proprio cervello.
Nel chiaroscuro crepuscolare di un tramonto comunque paranoico, non mancano però barlumi di libertà che ancora resistono. Come la rete, quella Arpanet che nel romanzo muove appena i primi passi, ma che qualche antesignano hacker alle prime armi sembra già capace di stravolgere dall’originale scopo militare a un futuro molto più gravido di promesse. La storia si chiude con Doc alla guida sulla freeway di Santa Monica perso in una nebbia fittissima che, salita dall’oceano, ha coperto l’intera città chiudendola in una realtà priva di spazio e spessore. Nel nulla assoluto, inquietante metafora del vuoto che ci aspetta, unico modo per viaggiare è agganciasi alla luci posteriori della macchina che precede. Si forma così una catena umana, in cui ognuno serve da guida al proprio vicino, l’unico servizio veramente gratuito in tutta Los Angeles, commenta acido Doc. Una solidarietà “inevitabile” che forse ci salverà….

In fondo, è un po’ come se Philip Marlowe, impegnato nel labirinto delle indagini descritte in “Addio mia amata”, si fosse fumato uno degli spinelli che Anne Riordan gli chiede di nascondere e, guidando nella nebbia lungo la freeway che da Santa Monica scende verso la Sud Bay, avesse inavvertitamente imboccato un tunnel spazio temporale, ritrovandosi all’uscita di Gordita Beach una trentina d’anni dopo, nei panni di uno strafatto detective, altrettanto marginale ma molto molto più sconclusionato e inconcludente. [Read more…]

L’arte di nascondersi dietro a una maschera (di trota), un ricordo di Captain Beefheart

[:en]Donald Glen Vliet amava le metamorfosi, già nella scelta dei nomi dietro cui indulgeva nascondersi: diventato da subito Don Van Vliet, si sarebbe affermato nel mondo multicolore del rock losangelino con lo pseudonimo di Captain Beffheart (dal nomignolo con cui uno zio esibizionista pare amasse presentare le pudenda ad una delle sue prime girlfriend: “Ahh, what a beauty! It looks just like a big, fine beef heart.”). E dietro una maschera, quella di una testa di pesce, sarebbe apparso sulla copertina dell’album destinato a restare come il suo massimo capolavoro musicale, “Trout Mask Replica”, un vero tour de force che, in 28 sketches, riassume in modo caotico e geniale un secolo di storia musicale americana, dal Mississippi Delta Blues alle improvvisazioni atonali di Eric Dolphy.

L’ultima metamorfosi, dopo il ritiro dalle scene rock alla fine degli anni ‘80, era stata quella in artista visivo di indubbio talento, artefice di una pittura cruda e violenta, solo in apparenza primitiva, ma ricca di rimandi colti, dall’Espressionismo tedesco al Cobra di Jorn. Non a caso ad annunciare la notizia della sua morte, lo scorso 17 Dicembre, prima ancora delle massime testate musicali, Rolling Stone in testa, è stato proprio il suo gallerista Michael Werner, dell’omonima art gallery newyorchese.

Ma nell’immaginario collettivo, almeno della generazione cresciuta tra gli anni ’60 e ’70, l’incarnazione più nota resta quella del Capitano, socio per breve tempo di Frank Zappa e musicista misconosciuto e inevitabilmente emarginato, ma a suo modo profondamente influente, fonte di ispirazione per decine di artisti delle generazioni a venire.

Zappa e Van Vliet si conoscono dai tempi del liceo, ambedue frequentano la Antelope Valley High School, di Lancaster, nella California meridionale, e passano intere nottate nella casa di Don, ai bordi del deserto di Mojave, ascoltanto soprattutto dischi di blues. I parenti non apprezzano ma tollerano, sono abituati alle stranezze di quel figlio strampalato che, fin dall’infanzia, si è dedicato in modo maniacale soprattutto a scultura e pittura. Dimostrando per altro un discreto talento, visto che a 11 anni ha partecipato già a uno show televisivo e ha vinto una borsa per studiare scultura in Europa. Sarà il padre a imporgli di rifiutare, giudicando l’arte “roba da finocchi”. E così la musica resta l’unica via di fuga.

Lasciata la scuola, Van si dedica a tempo perso alla vendita di aspirapolvere e, narra la leggenda, pare ne avesse piazzato uno perfino ad Aldous Huxley, che abitava allora a Llano nel Mojave, conquistandolo con la battuta: “Well I assure you sir, this thing sucks”! Trasferitosi a Rancho Cucamonga, Van decide di dedicarsi con più serietà alla musica, perfeziona il suo stile di armonicista e una vocalità chiaramente ispirata al blues di Howling Wolf, cominciando a vincere la propria innata ritrosia con le prime performances pubbliche.

Nel 1965 si aggrega al gruppo del chitarrista Alex Snouffer, anch’egli di Lancaster, e forma la Magic Band, destinata ad accompagnarlo, in diverse reincarnazioni, per tutta la sua carriera. Il primo singolo sarà una cover di Bo Diddley con cui firma per la A&M, una major. Ma l’intesa dura poco: quando presenta, l’anno dopo, i primi materiali di quello che sarà destinato a diventare il suo primo LP, “Safe as Milk”, i dirigenti della casa discografica fuggono inorriditi, costringendolo a cercarsi nuovi sponsor. Alla fine il disco si farà, due anni dopo, grazie anche all’aiuto di un geniale giovane chitarrista allora ventenne, Ry Cooder, che per l’occasione si è aggregato alla Magic Band. Lo stesso anno il gruppo dovrebbe partecipare al festival di Monterey, ma Don, durante un concerto a San Francisco, viene colto da una crisi di panico sul palco e l’occasione sfuma.

Nel frattempo i rapporti con Frank Zappa si sono rinsaldati. I due non si amano troppo, diversi per carattere e gusti musicali, uno raffinato e colto, l’altro più rozzo e diretto, ma si rispettano anche se i reciproci egocentrismi stentato a conciliarsi. Sarà comunque Zappa, con la sua nuova casa discografica, la Straigh Records, a offrirgli l’occasione della vita, permettendogli di registare il suo capolavoro musicale, “Trout Mask Replica”. Le sessioni dureranno un anno di perfezionismo maniacale esasperato. Van, diventato nel frattempo Captain Beefherat per suggerimento dello stesso Zappa, si chiude in un ranch isolato dal mondo con i componenti della Magic Band, obbligandoli ad estenuanti tour de force che durano anche 14 ore al giorno. La leggenda narra di un leader dittatoriale ed irascibile, che applica un vero e proprio lavaggio del cervello agli altri musicisti, con scenate che scadono spesso in vera e propria violenza fisica. In un clima esacerbato e a volte paranoico, nasce comunque un capolavoro. Il Capitano ha allargato i suoi orizzonti musicali, ha perfezionato l’uso di vari strumenti, su cui spicca il clarino basso, ed ha aggiunto vari fiati allo scheletro iniziale della Magic Band, che originariamente si componeva dei classici basso, chitarra e batteria, più la sua immancabile armonica blues. L’album è una sorta di delirante riassunto del meglio della cultura freak dell’epoca in cui la voce roca e cavernosa di Van spazia dal Delta Blues alle improvvisazioni in puro stile free jazz, con richiami che uniscono idealmente il primo Muddy Waters e l’ultimo Coltrane, mentre  testi e dialoghi forniscono un contributo di ironia pungente e iconoclasta, che lo apparenta ai contemporanei lavori delle Mothers of Invention.

Un anno di sperimentazione estenuante che Zappa riuscirà a registrare in sole cinque ore, conferendo al disco una freschezza e una naturalezza immediate che ben nascondono, nella loro apparente spontaneità, il lavoro maniacale di cui sono frutto. Il disco avrà un’accoglienza assai tiepida, nonostante le lodi della critica: per molti aspetti risulta troppo avanti rispetto ai tempi, ci vorranno anni perché generazioni di musicisti lo digeriscano e facciano proprie molte delle sue geniali intuizioni. La collaborazone con Zappa porterà comunque ad altri due piccoli gioielli della storia del rock, il cameo di “Wilie the Pimp” in Hot Rats, in cui Beeffheart presta la sua voce acida e gutturale a un pappone surreale, e “Bongo Fury” in cui i due lavorano insieme per l’ultima volta. La carriera del Capitano continuerà negli anni ’70 con almeno un altro gioiello musicale, “Lick my Decals off, Baby” sempre per l’etichetta di Zappa, in cui avanguardismo e sperimentazione toccano il massimo con l’uso di strumentazioni totalmente inusuali e anomale, e un pugno di altri dischi più o meno fortunati. Negli anni ’80 Van attenua le sue provocazioni, accetta compromessi con il gusto dominante e cerca accenti più soft, senza riuscire a sfondare in un mondo musicale sempre più orientato verso i toni facili del busines a buon mercato.

Sconfortato, il Capitano lascia dopo un’ultimo album mediocre, dando vita alla sua definitiva metamorfosi, trasformandosi in artista visivo e pittore di indubbio talento. Schegge della sua creatività visuale sono già apparse in varie copertine dei suoi Lp, ma è nel 1987 che si afferma ufficialmente nel mondo dell’arte contemporanea, pubblicando “Skeleton Breath, Scorpion Blush”, una raccolta di schizzi e poemi. Per il suo stile i critici lo associano all’espressionismo astratto di Franz Kline e l’opera non passa inosservata, generando un rinnovato interesse attorno alla sua controversa figura. Etichettato inizialmente come l’ennesima rockstar che si diletta di pittura (ci sono i precedenti, disastrosi, di Dylan, e quelli assai più convincenti di Miles Davis), con la sua prima mostra alla Mary Boone Gallery di New York nel 1985 Van Vliet era riuscito comunque a farsi prendere sul serio dalla critica, nostante i trascorsi da freakketone non deponessero a suo favore.  Nel 1997 John Lane, direttore del Moma di San Francisco, sancisce definitivamente il suo status di artista contemporaneo, definendolo personalità eminente, che ha saputo infondere nel suo astrattismo espressionista i colori e i sapori del deserto californiano, reinventando un naturalismo sapido e violento.

Don  si è spento apparentemente ucciso dalle complicazioni della sclerosi multipla con cui combatteva da anni. Ma, secondo alcuni, anche questa presunta malattia sarebbe stata soltanto un’ulteriore maschera, dietro cui  nascondeva, ancora una volta, la sua natura elusiva e sfuggente, selvaggia ma anche introversa. Lascia una cospicua eredità musicale, fatta di un pugno di autentici capolavori, e una schiera di devoti ammiratori tra cui si annoverano, tra l’altro, Tom Waits e John Frusciante, P.J.Harvey e Kurt Cobain, White Stripes, Beck e i Black Keys, per citare solo i più conosciuti.  Ciao Capitano, ci mancherai.

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Albert Cossery: L’Emiro bombarolo e il filosofo pigro

[:en]A Dofa, improbabile emirato di una ben più concreta penisola araba, domina il paradosso: unica autentica ricchezza del regno è, di fatto, la sua assoluta indigenza. Emblema di questa condizione felice è il traliccio di una torre di trivellazione, abbandonato ad arrugginirsi al sole rovente,  servendo da irresistibile richiamo per i giochi di una torma di bambini cenciosi e irridenti. Una ferrigna cicatrice lasciata al suolo da una torma di assetati speculatori, avvoltoi calati nell’assolato e desertico principato alla affannosa ricerca di quell’oro nero che ha fatto la “fortuna” di tanti paesi limitrofi. Una corsa finita nel nulla della sabbia ostile di un deserto che, a differenza di tanti altri, non nasconde nessuna sorpresa.

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