Don DeLillo – L’Angelo Esmeralda, miracolo a New York

Don-DeLillo-006Prolifico autore di romanzi spesso monumentali, Don DeLillo sembra invece aver dedicato assai minor attenzione, nello scorrere degli anni, alla difficile arte del racconto, il che, a giudicare dalla sua  prima raccolta oggi pubblicata, “L’Angelo Esmeralda” (Einaudi, pag. 208, € 19)  che racchiude nove testi brevi dal 1979 al 2011, è un vero peccato, data la maestria dimostrata nell’imbrigliare, in un  testo appena accennato, la magia imperdibile di un momento o l’ossessione di una vita. La sua narrativa, da questo punto di vista, racchiude qualcosa della filosofia Zen: ogni racconto rappresenta a suo modo un piccolo satori, l’epifania illuminante che irradia di significati reconditi le situazioni più improbabili, trasformandole in altrettante vivide visioni di una realtà aumentata, più vera del reale.

Ne è un ottimo esempio il racconto che dà il titolo alla raccolta: scritto nel 1994, ambientato in una Brooklyn che ricorda molto da vicino la New York del cattivo tenente di Abel Ferrara, è una storia di redenzione impossibile in un ambiente fortemente degradato e in una realtà per troppi aspetti perversa. Ad attraversare questa metropoli allucinata, che balza dalle pagine con più autentica concretezza di qualsiasi immagine stereotipata, sono due suore  impegnate in una ardua opera di carità, in improbabile società con una banda di writers adolescenti. Immerse in un panorama di rovine dal forte sapore apocalittico, le due donne hanno maturato una visione concretamente realistica del mondo in cui sono costrette a vivere e non hanno paura di sporcarsi le mani per compiere comunque la loro missione. Sarà la morte di una bambina, violentata e poi gettata giù da un tetto, a scatenare l’epifania proprio al centro di questo mondo degradato. In un finale fortemente felliniano, una folla di devoti improvvisati si raccoglie davanti ad un grande cartellone pubblicitario che ritrae una fantastica cascata di aranciata dove, al passare dei fari di ogni treno della metropolitana sopraelevata, sembra apparire il volto della giovane martire. Un piccolo miracolo, forse solo immaginato, ma con la potenza di un gesto radicale capace di rivoltare la stessa realtà apparentemente più intangibile.

Robert Pattison nel film di Cronemberg tratto da Cosmopolis

Robert Pattison nel film di Cronenberg tratto da Cosmopolis

Molti dei racconti hanno direttamente a che fare con le ossessioni più radicate dell’autore di “Cosmopolis”, esemplare storia di un tycoon intrappolato nella sua limousine in un ingorgo inestricabile proprio al centro della metropoli. Anche qui ritroviamo gente intrappolata, bloccata da situazioni contingenti o da insuperabili ostacoli mentali, persone in fuga dal loro mondo la cui ricerca esistenziale sembra esaurirsi in loop perversi, perpetui ritorni di un sempre uguale che ha le qualità dell’onirico e la solidità delle mura di una prigione.

C’è qualcosa di intrinsecamente  stridente nel contrasto tra un mondo che pretende di correre sempre più velocemente e gli interminabili ingorghi che bloccano le sue strade, tra il flusso infinito dei veicoli che percorrono le immense superstrade e l’immobilità di chi osserva da un cavalcavia, estraniato e incapace di dare un senso compiuto a tanto perenne agitarsi.

In “Creazione”, il racconto che apre la raccolta, una coppia formatasi casualmente in un aeroporto caraibico, attende inutilmente l’aereo che la riporti alle rispettive quotidianità. In un crescendo che ricorda vagamente l’atmosfera di certi racconti di Paul Bowles, l’improbabile coppia si unisce in un altrettanto improbabile climax sessuale, incapace di spezzare il circolo vizioso che la intrappola in un eterno ritorno al proprio albergo, in attesa di quell’ aereo che pare proprio non verrà mai. E intrappolati sono anche i due astronauti che orbitano intorno alla terra in “Momenti di umanità nella terza guerra mondiale”. Qui la fissità è fisica, ha a che fare con le leggi eterne della gravità. In uno scintillio meccanico dal sapore vagamente kubrikiano,  i due astronauti, apparentemente dimenticati lassù da un comando in tutt ’altre faccende occupato, osservano scrupolosamente il protocollo delle loro mansioni, un’altra catena di incombenze destinata a bloccarli in un presente continuamente ripetuto e senza vie d’uscita. Ma nel deserto vuoto del cosmo, è l’immagine della terra che risplende di un blu cobalto nei loro oblò a fungere da momento illuminante, da epifania che riporta ognuno alla sua piccolezza, ma anche ricorda una immensità che comunque in qualche modo ci comprende.

Ulrike Meinhof ritratta da Richter

Ulrike Meinhof ritratta da Richter

Nel mondo estraniato che DeLillo così bene descrive, grazie anche alla concisione imposta dalla forma racconto, gli esseri si aggirano totalmente estranei gli uni agli altri e l’unica forma di unione possibile sembra quella rappresentata dalle fantasie che ognuno fa sull ’altro inventandosi storie da sovrapporre a un reale spesso totalmente privo di significati o fatalmente inattingibile.  Le occasioni per incrociarsi, per rompere il silenzio imposto dallo scorrere continuo delle persone nel flusso perenne delle cose in movimento, sono delle più varie e improbabili. In “Baader-Meinhof” del 2002, è una mostra di opere di Gerhard Richter dedicate alla tragedia della Raf tedesca. L’improbabile coppia questa volta si forma davanti ai chiaroscurali ritratti dei cadaveri di Ulrike Meinholf e di Andreas Baader, colti con visionarie dissolvenze nella penombra di un museo dove due anime, altrettanto desolate, si sfiorano appena. Sono passati trent’ anni da quella tragedia, i protagonisti odierni sono figli precoci della crisi, disoccupati in fuga perenne tra un colloquio di lavoro e l’altro, vite racchiuse in miniappartamenti, claustrofobici quanto le celle di quelle prigioni tedesche.

DeLillo, fin dai tempi di “Rumore Bianco”, non è solo un autore in qualche modo apocalittico, ma pure per certi aspetti addirittura profetico. Non a caso ha saputo dipingere alla perfezione l’inferno di una New York devastata ben prima dell’undici settembre di Al Qaeda. Una dimensione, questa della profezia, che non manca nemmeno nei suoi racconti. Basti leggere, a questo proposito, l’esilarante “ Falce e Martello” del 2010, dove in una prigione di minima sicurezza si aggira una folla di ex broker fraudolenti, protagonisti della Wall Street degli hedge  fund e dei derivati, approdati giustamente ad un riposo forzato e blandamente custodito.

Anche in questo caso il protagonista è bloccato, secondo il miglior stile del nostro autore, seppur racchiuso da flebili pareti di celle spesso aperte. Come finestra sul mondo ha un programma televisivo per bambini dove le sue due figlie leggono un curioso telegiornale finanziario, scritto probabilmente dalla loro madre, sottilmente e ironicamente critico verso il mondo fatale del grande capitale. Mentre le due bimbe snocciolano dallo schermo  devastanti immagini dello sgretolarsi di un mondo, la crisi greca e lo spappolarsi dell’euro, una platea di detenuti che furono un tempo i protagonisti di quel mondo dorato fa apertamente il tifo per la fine di tutto, in un applauso sincero all’ apocalisse prossima ventura.

Chiude la raccolta un testo a suo modo emblematico, tassello finale di un itinerario comunque coerente, nonostante lo scorrere degli anni. “La denutrita” del 2011 fa bene da sintesi all’intero percorso di questa discesa all’ inferno in nove gironi , seppure con il sorriso sulle labbra. Anche in questo caso il protagonista è, a suo modo, un prigioniero di quei loop tanto amati dal suo autore: questa volta abbiamo un personaggio singolare, il cui unico scopo nella vita sembra quello di vedere il maggior numero possibile di film, senza un fine preciso, ma giusto per organizzare la propria vita attorno a una ragione, seppur alquanto flebile.

Il cinema secondo Hopper

Il cinema secondo Hopper

La sua vita appare comunque perfettamente organizzata: convivente separato con una moglie da cui ha divorziato, ma con cui continua a condividere una minuscola abitazione, organizza le sue giornate in orari stringenti per correre da un cinema  all’altro, cercando di collezionare giornalmente il maggior numero di proiezioni possibili. La finzione, chiaramente, ha preso il posto della realtà, ma questo comunque non sembra più un problema, quello che scorre sullo schermo pare diventato comunque indifferente, il caldo accogliente della sala sembra spesso contare molto di più, anche se nel racconto non c’è traccia di regressione psicologica.

Nel mondo asfittico raccontato da DeLillo le persone perdono progressivamente i confini del proprio ego, hanno difficoltà  evidenti a continuare ad aderire ad un mondo, qualunque esso sia. Quando il nostro cinefilo incontra la denutrita, una magra spettatrice che sembra perseguire il suo stesso percorso, fisico ed esistenziale, la segue non perché interessato realmente alla sua persona, come tutti i protagonisti di queste storie alla realtà preferisce apertamente quello che immagina su di essa, ma perché in qualche modo è diventata essa stessa parte del film che lui continua a vedere, una testa che si frappone allo schermo e lo invoglia ad indagare, ma senza davvero voler sapere.

Nell’ universo immaginario di DeLillo siamo in fondo tutti prigionieri di una qualche perversione: la realtà che ci scorre accanto conta poco o nulla, tanto nessuno sembra più  adatto a capirla e peggio ancora a possederla. Al massimo possiamo aggirarci in essa cercando di scorgervi il segno tangibile della nostra più intima ossessione, quel livello di surrealtà che la letteratura, meglio di un qualsiasi google glass, è capace di restituirci aumentata di un grado se non di comprensione, almeno di compassione, nel senso migliore del termine.

a.pass.

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